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L’Aquila un anno dopo. Ovvero del vuoto

Reduce da una giornata passata nei dintorni dell’Aquila, per cominciare un reportage sulle 19 unità abitative costruite dalla Protezione Civile (meglio note come C.A.S.E.), ed è un’esperienza che segna. Dentro.

Le 19 unità abitative del comune de L’Aquila sono disposte come nella piantina qui sotto:

Il percorso, partendo dalla città (unità abitativa di Sant’Antonio), e finendo all’unità abitativa di “Coppito 2” si articola in 99 chilometri, di cui oggi sono riuscito a malapena a coprire la metà (10 unità su 19), in circa 10 ore.

La visione che la città restituisce dall’autostrada, un anno dopo, è abbastanza diversa da quella dei giorni successivi al terremoto del 6 aprile 2009: sono spariti i cartelli rossi, le case sembrano in gran parte rimesse in piedi, e sembra che la situazione vada avanti.

Sembra. Appunto.

Poi si esce all’Aquila Ovest, e si entra in città, dirigendosi verso l’insediamento di Sant’Antonio, situato in una zona nuova dell’Aquila, vicino al comparto industriale Pile.

La prima cosa che si nota sono le miriadi di pubblicità di ditte di ristrutturazione che offrono “tecniche antisismiche, spese contenute e tempi certi”. Sono praticamente ovunque, lungo la strada.

Poi ci si accorge che molti degli stabili che sembravano essere ristrutturati hanno crepe enormi che le attraversano, e sono chiaramente non abitati, o comunque non utilizzati dal momento in cui il terremoto li ha devastati.

Infine si arriva all’insediamento. E la cosa che colpisce è il silenzio.

Assoluto. Irreale. Sembra di essere in un insieme di case vuote.

Domenica, una bella giornata di sole non troppo calda, ore 11 circa, e fuori non c’è nessuno.

Neanche i bambini. Si sente qualcosa, si intravede qualche movimento di vita dietro le finestre degli appartamenti apparentemente non abitati, e poi pian piano si scoprono tracce.

Poche, come a marcare il fatto che ci si è, che dovrebbe essere casa, ma con timore, circospezione, e soprattutto con un senso diffuso di precarietà e disadattamento.

E infine, le persone: una, massimo due, come cadute lì.

Persone che spesso, troppo spesso,  guardano il vuoto. Come per capacitarsi di dove sono. Di cosa hanno perso. E di cosa è rimasto loro.

Cosa è rimasto loro ? Dal sito della Protezione Civile:

“I complessi previsti dal Progetto C.A.S.E sono veri e propri quartieri formati da case circondate dal verde e dotate di tutti i servizi. Sono costruzioni prefabbricate, realizzate in diversi materiali: legno lamellare, calcestruzzo precompresso, laterizi oppure metallo isolato termicamente. […] Le abitazioni sono consegnate complete di arredi. Nelle C.A.S.E. sono poi presenti tutti i comfort: dagli elettrodomestici, come il televisore a schermo LCD, la lavatrice, la lavastoviglie, il forno elettrico e il frigorifero con congelatore, a componenti d’arredo quali divani e poltrone in tessuto o ecopelle e tende colorate. […] Quando la vera e propria ricostruzione sarà completata, sarà la collettività a decidere il nuovo uso di questi quartieri, che potranno essere riutilizzati in futuro come residenze per studenti o sistemazioni turistiche.”

E le macerie.

Macerie delle loro vite. Del loro comparto sociale. Dei loro affetti. Delle loro case.

Macerie che nessun interno in ecopelle potrà rimuovere, soprattutto se continuano ad essere davanti ai loro occhi, come quando si sono salvati dalla scossa delle 3.32.

Macerie di una vita che, da un paese di poche anime quali Poggio di Roio, o Camarda, è stata trasportata in condomini fantasma di 25-30 appartamenti ognuno, degni della migliore periferia tecnologica di una capitale, ma completamente fuori posto e fuori contesto laddove sono stati costruiti, violentando la natura e i luoghi stessi. E senza nessun punto di aggregazione. Neanche una chiesa, o un bar.

Laddove sono stati fortunati, nei comparti abitativi più grandi, hanno lasciato un tendone della Protezione Civile adibito a chiesa e/o a centro ricreativo.

Però ogni casa ha l’antenna parabolica.

E gli interni in ecopelle.

  1. 21/05/2010 alle 18:05

    E’ così asciutto questo reportage, che lascia senza parole…ma “segna. Dentro.”

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